www.siciliamillennium.it

firenze -
“Il fanciullo e l’anima del mondo” di Iveano Benigni Braschi,
volume di poesie tenuto a battesimo dalla nota poetessa Paola
Lucarini - ore 00.10
di Maria Valeria Sanfilippo

Iveano Benigni Braschi
FIRENZE - La poesia come specchio individuale e sociale
“La letteratura è lo specchio rifrangente di una coscienza
comune, collettiva, espressione delle coordinate socio-
politiche e culturali del tempo”. Lo diceva bene il grande
Petronio.
E i poeti e gli artisti in genere, si sa, sono dei “ponti”,
interpreti d’eccezione in bilico tra l’immanenza delle cose e
la trascendenza dell’esistenza. È il caso di Iveano Benigni
Braschi, che ha dato alle stampe “Il fanciullo e l’anima del
mondo”, neonata creatura poetica che, sin dalle prime battute,
palesa la freschezza dell’incunabolo e a un tempo la qualità
di uno stile maturo e personalissimo. Il sostrato sotteso ai
versi è ricco, stratificato, variegato. La biblioteca di
letture di cui si è evidentemente nutrito annovera illustri
precedenti (in primo luogo Dante, Petrarca, Leopardi,
Pascoli). Ma è pure possibile rintracciare echi ascrivibili
alla letteratura centro e nord-occidentale europea (fra gli
altri Novalis, Shakespeare, Shelley, compagni d’avventura
talora invocati quali muse ispiratrici), seppure rivisitati
con una cifra del tutto autonoma.
Metaforici, evocativi, i versi del poeta inseguono
allegorie e sensazioni, realizzando il giusto equilibrio tra
ermetismo e trasparenza. Seminando il salutare tarlo della
riflessione, inducono la coscienza a valicare orizzonti
sovra-umani. E anche quando “la vertigine dell’abisso” è in
agguato o si profila una quiete improduttiva, (“Vorrei
dormire”) si muore per rinascere. In filigrana una forza
ricreatrice, una “spes” proficua, la speranza del supremo bene
della bellezza e della conoscenza, in grado di introdurre un
nuovo paradigma che educhi alla multietnicità e all’interculturalità
(e perciò poesia per molti aspetti “ecumenica” come
testimoniato dalla lirica “Quanti mondi”) contro la labilità
della memoria e l’appiattimento dell’imperante impulso
omologante.
Unitamente ai grandi temi esistenziali (l’amore
declinato in tutte le sue forme, il senso della vita e il
mistero che nella notte “fiorisce”) le espressioni del
presente momento storico, in grado comunque di parlare
all’uomo di ogni luogo, tempo e condizione sociale.
Disseminate qua e là, le interrogative dell’autore
riqualificano l’uomo, le sue azioni, il suo ruolo nel mondo,
ristabilendo una scala di principi che punta alla
valorizzazione della persona umana, colta nella sua dignità.
L’avvertita, latente precarietà esistenziale è così risolta
non già sulla scorta del monito oraziano “Carpe diem!” ma
attraverso l’auscultazione di tutte le creature viventi
(“Ascolto la leggerezza della vita / che trascorre, / la sento
nell’intimo del cuore / e sul palmo della mano, / nell’anima
di un fiore / e nei fondali del mare”). Una poesia che esce
indenne dalla dialettica degli opposti: tra l’ “eco” e il
“sussurro”, la “luce e l’ombra”, la “vita” e la “morte”, il
poeta-fanciullo trova sempre una conciliazione.
In sottofondo un afflato
cosmico (la “grande madre”, le “miriadi di galassie e di
stelle”, etc.) che accomuna panicamente uomini, animali,
piante. Si potrebbe persino scorgere un francescanesimo in
chiave moderna (“Tu stella sorella / immagine del mio cuore /
inizio e fine del mio canto) che non tralascia niente e
nessuno sin dal titolo della raccolta: il fanciullo (l’ “io”)
, l’anima (la dimensione spirituale), il mondo (la società).
Una struttura circolare che si autoalimenta ripresentandosi
nell’explicit finale.
Obiettivo precipuo l’armonia universale. A tale scopo l’espediente
musicale fa da costante leit-motiv, colonna sonora che
sottolinea sfumature di pensiero e di parola. Cosi, con le
composizioni di Shumann e Chopin, coesistono i concerti dei
grilli e delle rane, i ritornelli melodiosi dei fiori, il
canto “senza tempo” della foresta, che prefigurano un
idilliaco stato di pace nell’irrinunciabile diversità timbrica
delle note.
Di lirica in lirica, il lettore, lasciato in balia del
libero arbitrio, è condotto nei meandri di una geografia
dell’anima. Insieme all’ “ulissismo” il motivo odeporico
percorre interamente l’opera. Il viaggio assume i contorni
labirintici dell’esistenzialismo. Dal polo all’equatore, da
Samarcanda al Grand Canyon, prestando orecchio ai folletti e
alle fate delle selve irlandesi, contemplando le maliose
scogliere di Moher, i Mäelstrom norvegesi, impastoiati tra le
nevi dell’Himalaya, riapprodando nei più familiari lidi
italiani, vagano gli occhi stupiti del poeta fanciullino che
non si stanca mai di osservare e di meditare dalla “terrazza
dei marmi e delle idee”. A Oriente o a Occidente partire
significa perciò sostare, conoscere la ricchezza della
diversità, giacché “un luogo non è mai solo quel luogo, quel
luogo – soleva affermare Antonio Tabucchi – siamo un po’ anche
noi”. Per Tabucchi come per Iveano Benigni Braschi viaggio è
sinonimo di una ricerca dell’identità che si traduce in
attenzione nei riguardi di un “Altro” che non è altro da sé.
Ciò sembrano suggerire i componimenti “E così ti cerco” e
“Vorrei conoscerti”. Perché la scrittura di questa silloge è
anzitutto poetica dell’ “incontro”, del “primo Adamo” e della
“prima Eva”. A ragione Proust asserisce che “il vero viaggio
di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma
nell’avere nuovi occhi”.
Nell’immaginario del poeta tutto è concesso. Perfino
che gli uomini siano stati cavalli liberi su sterminate
praterie o salmoni regali lungo le correnti scozzesi. Pur
muovendo da inclinazioni fortemente filosofiche, il dettato
poetico di Benigni Braschi si avvale il più delle volte del
codice fiabesco. Incanto, onirismo, cromatismo (per nulla
casuale l’insistente scelta dell’azzurro e del viola che fanno
talvolta le veci di colori-stati d’animo), metamorfosi
(“l’eterno ritornello dell’essere e del divenire”),
antropomorfizzazione (le stelle che sorridono e che gemono, i
fiori che hanno un’anima, etc.), l’implicita presenza della
morale, reiterazioni studiate a tavolino per generare pathos,
sinestesie ricercate, tematizzazioni o dislocazioni di
segmenti di frasi (tipiche del parlato informale colloquiale e
dunque dei dialoghi). Ci sono tutti quegli ingredienti, fils
rouges sapientemente mescolati, che consentono di gustare una
fiaba-poesia, corroborata da una sintassi dei cinque sensi che
contribuisce alla ricerca della conoscenza: “Ho cercato / le
corrispondenze segrete / dei suoni, dei colori /e dei profumi
/ con l’anima del mondo”. Ma se per Calderon del la Barca “la
vida es sueño”, per il nostro autore la vita è “come un
sogno”, è cioè proiezione della realtà. Lo stesso potrebbe
dirsi per il binomio poesia-vita. Ma è senz’altro vero che
l’invito alla poesia, che è “la prima parola pronunciata / nel
caos indistinto dell’abisso, / nel cuore pulsante della luce,
/ nel sussurro lieve della creazione”, può combaciare con il
richiamo alla vita. Che si tratti però di poesia o di altro
l’importante è leggere. È in fondo il messaggio di “Mi muovo
in questa biblioteca di sole e di luce”, ove “tutto giace
sepolto. / I sogni degli egizi / la gloria dei Romani / la
bellezza perfetta dei greci / il calice del Graal / il canto
dei poeti e delle stelle”.
La società odierna è refrattaria a frequentare la poesia.
Destinati ad un pubblico trasversale (per l’immediatezza
comunicativa, frutto in realtà di un’ardua perizia che rende
facile il difficile), i testi poetici di Iveano Benigni
Braschi (il cui valore è già stato avvertito da quella colta e
finissima poetessa e umanista che risponde al nome di Paola
Lucarini) fanno parte di quella ristretta cerchia di libri che
lascia ben sperare nella realizzazione di quanto agognato da
Clive Lewis: “Il valore della letteratura diventa reale solo
quando i lettori leggono. Diversamente, i libri su uno
scaffale sono letteratura solo potenzialmente”. E a questo
“Fanciullo e l’anima del mondo” non possiamo che augurare
perciò ulteriori consensi di pubblico e di critica.
|